Dal momento della nascita, al primo respiro, oltre a un sacco di eventi fisioanatomici che cambiano materialmente la nostra esistenza avviene un evento imponente, maestoso e miracoloso: si apre il sipario…nuovi suoni, nuovi colori, nuovi odori, accolgono noi, la nostra vita. C’è chi crede che già al momento del concepimento avvenga tutto ciò, ma sebbene dal punto di vista scientifico mi possa trovare d’accordo, mi devo necessariamente discostare da ciò dal punto di vista umano, “vivere” non significa essere un agglomerato di cellule in via di differenziazione, “vivere” non può essere un termine asettico e statico, privo di passione, “vivere” è partecipare, condividere, emozionare e perciò mi sento obbligato a collocare questo termine al di là del sipario… Riflettendo si di ciò non può che entrare nella ruota dei significati un altro termine: nascere. Cosa differenzia questo termine? Non è strettamente legato all’atto in sé, spesso lo sentiamo in altri contesti, in altri momenti, deve essere quindi qualcosa di imponente tanto quanto vivere…
Difatti, ecco, ho la soluzione, chiamo in causa un altro termine: esistere; metto i tre termini assieme e vedo come l’infanzia sia determinante nello scindere il significato dei tre termini base dell’esistenza: “vivere, nascere, esistere”. Con il termine esistere possiamo epurare sia nascere che vivere dai loro significati più meschini, conferiti loro da un mondo irruente, inarrestabile che ha relegato la riflessione alla follia Esistere, è qualcosa di statico, quasi come un diritto, senza dovere, noi esistiamo sin dall’atto del concepimento, esistiamo già quando siamo morula, blastula, embrione e feto; difatti, solo per via riflessa possiamo essere portatori di passione ma noi, in quanto protagonisti della nostra esistenza, siamo solamente un agglomerato cellulare in via di differenziazione ed accrescimento e non comunichiamo, per nostro volere, niente. Nascere è posto al confine tra l’esistenza in quanto tale e la vita quale melting pot di passioni e comunicazione, è un filo che ci collega dal baratro dell’esistenza alla superficie della vita ed è per quello che lo ritroviamo in altri contesti, la parola nascere, battezza un evento non continuativo, offre solamente la scintilla affinché abbia ragion di essere la parola vivere.
Vivere è quindi un bene sommo, una virtù da custodire, un dono che, conferitoci nell’infanzia come un diritto, si dimostrerà nel domani il nostro carburante per la vita, la nostra strada verso l’infinito; di essa dobbiamo imparare le sfumature, le peculiarità, le diramazioni, le debolezze ed i rischi.
“Finché viviamo dobbiamo imparare l'arte di vivere”
(Seneca)
Felice di aver finalmente capito la ragione della mia esistenza mi raggomitolo nuovamente su me stesso, mi nutro del mio intelletto per riuscire a capire come mai, mai prima di ora, mai prima di aver sognato
“Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu sei” (N. Machiavelli)
Ritorno quindi al mio obiettivo, alla mia missione, all’est; mi faccio sorreggere dall’aquila e sorvolo i ricordi; ho capito perché esisto, ho imparato il significato di nascere, l’essenza di vivere, ma ancora non ho potuto riflettere su come questi tre termini astratti si possono andare ad intersecare nell’uomo che sono, da dove sono nati i miei ideali, da dove ho forgiato i miei sogni. A proposito di ciò mi salta alla mente una frase che lessi:
“Viviamo tutti sotto lo stesso cielo,
ma non tutti abbiamo lo stesso orizzonte”
(K. Adenauer)
A molti può sembrare una cazzata di un cancelliere tedesco ma se le sue parole le estirpo e le faccio mie, vanno a genio con il mio obiettivo; tutti ci chiediamo o ci siamo interrogati sulla diversità delle persone e dei loro ideali sebbene poi “viviamo tutti sotto lo stesso cielo” e proprio nell’infanzia credo che risieda il punto di snodo verso il nostro personale e privato orizzonte. La nostra vita viene forgiata sulla base delle esperienze infantili che ci fanno apprezzare, tollerare ed interessare determinate cosa a dispetto di altre e come se fossimo piante, ci dirigiamo verso il nostro habitat con un bagaglio di humus ed iniziamo a crescere. Come potevo non essermene ricordato prima, la parola principale che caratterizza l’infanzia è crescere; quell’insieme di trasformazioni, fisiche, chimiche e psichiche che ci portano alla gioventù.
Rifletto…
Immagino la mia vita come un pianale scabro, vuoto al quale “crescere” si riserva il compito di levigare e complementare al fine che diventi una bellissima scultura (non a caso ho scelto come incipit il legno, qualcosa di saldo ma deteriorabile, sarà la gioventù a farlo divenire pietra). Il processo di crescita è un moto turbolento del quale nessun fisico ha tenuto conto ma che è fondamentale. Ora, il bambino, padrone del suo pianale in legno inizia a scegliere gli strumenti e, munitosi di chiodi, martello, seghetti ed tutto il necessario è pronto a forgiare la sua opera, la sua vita. Come un radar di una portaerei in guerra è attento, discreto ma peculiare e pignolo nelle sue decisioni, sta decidendo, sottoforma di gioco, chi vuole essere e chi sarà. Mi chiedo ora cosa differenzia il bambino dall’adulto. Semplice…la spontaneità, la sfrontatezza e l’impavidità; difatti solo gli adulti ed i “grandi” hanno la sensazione di “paura del conosciuto”, il bambino esplora, prova, cade e si rialza senza il bisogno di nascere in un dirompente processo di crescita che lo porterà a discernere il bene dal male, la gioia dal dolore e il buono dal cattivo; l’unica paura del bambino è la mancanza di affetto, amore, il non saper vivere. Passano quindi le stagioni, gli anni e, il piano ligneo, non è più sufficiente; si necessita si qualcosa di solido, imperturbabile ed imponente, forgiato sull’infanzia…mi guardo attorno ma non c’è niente… vedo in lontananza una nube tempestosa che si avvicina, mi abbraccia e mi porta a SUD, alla gioventù.